Il concetto di INCLUSIVITA’ permane nell’ambiente scolastico ormai da una decina di anni. Ma la sua origine qual è? La direttiva del 27 dicembre del 2012, rivolta agli alunni e agli studenti con bisogni educativi speciali, ha portato a compimento la vocazione italiana di integrazione maturata dagli anni della Legge 517/1977, la quale integrava gli alunni con handicap all’interno delle classi, alla “realizzazione teorica di una scuola realmente inclusiva” in grado di calibrare la propria azione in relazione alle moltitudini di situazioni differenti.
La Direttiva Ministeriale del 2012 estende il termine bisogno da tutte le condizioni di disabilità a tutte le condizioni di difficoltà che richiedono particolare monito, prescindendo da preclusive tipizzazioni: l’alunno può manifestare bisogni educativi speciali o “per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali e culturali”.
Uno dei disturbi che negli ultimi anni ha ricevuto maggior attenzione è sicuramente il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (D.D.A.I.) molto spesso denominato con l’acronimo americano ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) e inserito nel DSM-V all’interno dei Disturbi del Neurosviluppo, i quali insorgono nelle prime fasi del periodo evolutivo.
Il dibattito si è concentrato sull’uso smisurato dei farmaci soprattutto nel contesto americano ove vengono prescritti anche nei casi meno gravi che potrebbero richiedere solamente una corretta terapia e l’iper-diagnosi anche nei confronti di bambini semplicemente vivaci.
Quest’ultimo punto è presente anche nel panorama italiano dove il cambiamento degli usi e dei costumi ha portato a considerare il bambino come un’entità adultizzata che per essere accettato deve fare “il bravo bambino” e le caratteristiche tipiche degli infanti, vivacità, spensieratezza, rumorosità, ingegno e creatività non vengono considerate e se presenti vengono denominate come elementi di disturbo.
L’ADHD compromette la modalità con la quale la persona presta attenzione agli stimoli e svolge le attività della vita quotidiana. I termini chiave del disturbo sono DISATTENZIONE, IPERATTIVITA’ E IMPULSIVITA’: la prima osservabile in età scolare mentre le ultime due osservabili anche in età pre-scolare.
Le tipologie, come delineato nel DSM-V possono essere di due tipi: tipologia con disattenzione (criterio A1) e tipologia con iperattività e impulsività (criterio A2) e la diagnosi arriva solitamente con età scolare anche se ci sono casi riscontrati prima dell’ingresso del bambino alla scuola primaria. A seconda della tipologia e dalla persistenza dei segni e dei sintomi e alla successiva compromissione sociale e lavorativa vi sono tre livelli di gravità: lieve, moderata, grave; la prevalenza è di circa il 5%, maggiore nel genere maschile.
Il disturbo compromette il corretto apprendimento del bambino e se non correttamente trattato vi sono conseguenze funzionali del D.D.A.I riscontrabili, con sintomi differenti, in età adulta.
I soggetti hanno spesso prestazioni e risultati scolastici ridotti e, in media, raggiungono una minore scolarità e potrebbero avere punteggi intellettivi inferiori ai coetanei; il senso di autoefficacia e le prestazioni lavorative sono deficitarie; spesso hanno rapporti familiari conflittuali ed interazioni negative; in età adulta sviluppano ansia, incontrollabilità comportamentale ed irrequietezza che aumenterebbero l’uso di sostanze e le condotte lesive nei confronti della comunità.
Quando il Disturbo è effettivamente diagnosticato e si riscontrano oggettive difficoltà come viene incluso il bambino all’interno dell’ambiente scolastico e del gruppo classe?
Prima di tutto è fondamentale il lavoro sinergico tra famiglia, scuola e clinici per un corretto processo riabilitativo e la creazione di un programma personalizzato a seconda della gravità e il riferimento alle diverse leggi a seconda che vi sia o no la certificazione clinica.
A livello pratico i bambini con ADHD risultano antipatici ai loro compagni di classe poiché l’impulsività non permette né il controllo comportamentale né il controllo verbale e di conseguenza hanno meno amici rispetto ai coetanei e perdono più frequentemente e rapidamente relazioni positive e fondamentali per il loro sviluppo identitario.
Questi bambini vengono spesso esclusi ed emarginati attraverso comportamenti di svalutazione, sottostima, rifiuto, pregiudizio ed enfatizzazione negativa del loro disturbo che comportano l’aumento dei sentimenti di inadeguatezza e di bassa autostima.
L’ambiente scolastico negativo e il senso di inefficacia a livello di rendimento scolastico portano i ragazzi alla bocciatura e al successivo abbandono scolastico.
Le insegnanti svolgono le proprie lezioni e molto spesso intravedono la voglia di questi studenti di essere attivi e incentrati sulla conoscenza di nuovi argomenti ma, non riescono a comprendere e gestire determinati comportamenti: ad esempio spesso distraggono la lezione, si alzano ripetutamente, non riescono a rimanere in silenzio e rispondono a una domanda prima ancora che l’interlocutore termini la stessa.
Sono proprie le abilità richieste dalla scuola ad essere compromesse: attenzione, pianificazione, problem solving, motivazione, gestione e controllo dei processi cognitivi.
I docenti dovrebbero creare delle lezioni basate su uno sforzo didattico, organizzativo e metodologico innovativo appreso attraverso la costante conoscenza e formazione garantita dall’organo scolastico e incentrare il loro lavoro sulla corretta valorizzazione dei punti di forza dei bambini e dei ragazzi.
Competenza e accoglienza dovrebbero essere i due cardini della scuola del futuro in grado di sdoganare il paradigma della “vecchia scuola” incentrata prevalentemente sul passaggio automatico delle informazioni.
Il corpo docente dovrebbe venir meno all’enfatizzare nei confronti del gruppo classe delle difficoltà del bambino e i termini diagnosi, certificazioni, ADHD, DSA non dovrebbero essere espressi poiché i più piccoli non riescono ad elaborare correttamente queste terminologie ed estrapolarle creando un pensiero astratto su di esso: non hanno ancora sviluppato le strutture cognitive idonee.
Lasciamo queste parole agli adulti di riferimento…
La scuola è il secondo grande sistema di educazione mentre il primo rimane certamente la famiglia; il bambino attraverso l’osservazione e l’imitazione delle figure genitoriali crea dei modelli che successivamente riproporrà con altre figure autorevoli e con i coetanei.
La priorità dei genitori sarebbe quella di essere sensibile nei confronti del proprio figlio e analizzare quale siano i suoi bisogni materiali e non, i suoi desideri, le sue difficoltà e non fermarsi mai all’apparenza; ciò dovrebbe essere indirizzato nei confronti degli altri bambini e constatare direttamente quando vi sono delle difficoltà e insegnare alla prole che la conoscenza sensibile e profonda è la migliore.
Dott.ssa Cristiana Ginevro
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